Nelle austere sale dell'ex convento dei Cappuccini, adattato
con gusto a Museo del Satiro a Marsala, una mattina, dopo l'apertura, si udì il
canto di una voce giovanile ma vibrante
“ viva viva la
vita”
“viva viva la
vite”
I visitatori, sempre molto
numerosi anche alle prime ore, si guardarono stupiti.
Accorsero i guardiani e non videro nulla di anomalo, tutto era in ordine, non si erano resi conto che il Satiro si era svegliato dal suo sonno millenario e voleva esprimere la sua gioia irrefrenabile.
Accorsero i guardiani e non videro nulla di anomalo, tutto era in ordine, non si erano resi conto che il Satiro si era svegliato dal suo sonno millenario e voleva esprimere la sua gioia irrefrenabile.
“Sappiate” disse ai presenti “che
io rappresento la gioia, la vita, io non ho legami né con il cielo né con la
terra, io sono libero, non ho neanche vestiti …questo è il segno della mia
assoluta libertà. Io canto l'ebbrezza e invito anche voi a unirvi a me e
danzare con me, verranno anche le ninfe e danzeremo fino a notte.
Sappiate che io non sono un
satiro, come dite voi, io non ho orecchie di asino, non ho corna di capra, non
ho la coda di cavallo; io sono un dio: sono il Dio Dioniso.
Attorno a me avete innalzato un
museo, anzi un mausoleo unico al mondo, tutto per me e credete che per un
modesto satiro valeva la pena di
fare una statua di bronzo e tante opere civili?
Confermo, e lo grido ad alta
voce, io sono un Dio, mi generò Giove, ma uscii dall'argilla: mi modellarono le
mani sapienti del più grande artista di tutti i tempi. Nacqui dalla creta come
Adamo, ma il mio creatore non era quello lo stesso... si chiamava Prassitele e vi posso
assicurare che anche lui era un dio.
I Siciliani, anzi i cittadini di Segesta, avevano innalzato per
me un grande tempio e volevano al centro la mia effige. Si erano rivolti agli
arconti di Atene con richieste precise. Volevano una statua non in marmo ma nel
più duraturo bronzo. Conoscevano le statue in marmo che mi raffiguravano in
piedi e spesso appoggiato ad un tronco: “No” dissero “vogliamo un statua che
sia simbolo della vita, della danza, dell'ebbrezza, della gioia”. Gli
Arconti dissero che solo un uomo poteva
soddisfare queste richieste e interpellarono il grande Prassitele.
Lui non solo non si tirò indietro
ma entusiasta del tema disse: ”Io vi farò un dio
che danza nell'aria!”.
Il tema era arduo, voleva che mi
librassi nell'aria senza peso come un
angelo, come gli angeli cristiani che arriveranno dopo mille anni: modellarmi
con questo vincolo non era stato mai tentato prima. Ci aveva provato il suo maestro Fidia, aveva scolpito il discobolo ma i piedi erano posati per terra e,
anche se l'atleta sembra volare col disco, era stato costretto ad appoggiarlo a un robusto tronco d'albero che
sorreggesse la statua. Le caviglie umane sono troppo strette per sorreggere
una statua in marmo e tutti i grandi
scultori si sono dovuti inventare soluzioni alternative. Lui invece, il mio creatore, scelse il bronzo cavo
all'interno e molto più leggero.
Mentre mi modellava sentivo le
sue mani possenti premere l'argilla e come Pinocchio mi lamentavo di gioia, ma
sentivo lui trattarmi come un padre che genera il figlio con le sue mani.
Non posando i piedi a terra la
statua si doveva reggere da sola e per modellarmi Prassitele inventò un
supporto provvisorio che, come una coda, mi reggesse in aria: sconvolse la statica
e modellò la dinamica; modellò nell'aria, modellò l'aria.
Solo lui poteva avventurarsi in
un simile lavoro. Quando finì di modellarmi venne la fase più ardua, quella della fusione in bronzo
e occorreva tanto rame, tanto coraggio e ancor più competenza.
Si rivolse al popolo, chiese rame
e ne arrivò in quantità notevole: il popolo era felice di dare anche piccoli
oggetti per la statua del loro dio tanto amato.
Dieci uomini mi sollevarono e mi
posero nella fossa della fusione. Il bronzo liquido colò come vino spumeggiante
e io sentii il calore della vita che mi creava. Lui, come il Cellini per la
fusione del Perseo, seguiva con competenza ogni fase e per giorni e notti non
mi lasciò; fu come un parto. Lui era un esperto di marmi e le sue poche statue
in bronzo gli erano costate tante ansie.
Quando dopo i giorni necessari al
raffreddamento della forma, fui liberato, uscii alla luce, brillante come oro,
luminoso come il Sole che, felice, rivedevo dopo le tenebre. Restò solo il bronzo di uguale
spessore che è quello che vedete ora. La fusione fu perfetta in ogni dettaglio,
i capelli sembrano mossi dal vento e gli occhi rimasti intatti, guardano il futuro. Tutto era in me danza e
movimento: io rappresentavo il vento della vita e questo vento non cesserà mai.
Venne tutto il popolo di Atene a
vedermi e ad ammirarmi, i commenti furono vari. Ci fu un gruppo capeggiato dagli arconti che mi considerò
troppo lascivo, riteneva che la mia estasi, l'ebbrezza che esprimevo, rappresentasse un contatto col mondo degli
spiriti e per questo ero diseducativo
per la gioventù. Molti anche dei pritanni dissero che non mi volevano ad Atene ed
era bene che andassi nelle lontane
colonie della Sicilia. Con loro non si scherzava e Socrate ne aveva
sperimentata la durezza e l’intransigenza.
Il mio culto per un certo periodo fu vietato, fui messo al bando e i miei seguaci vennero perseguitati; eppure io avevo insegnato ai greci a
coltivare la vite, a scoprire la natura e a goderne...
Facevo delle grandi feste; erano orgiastiche
ma erano un'esaltazione della vita e dei suoi piaceri. Si arrivava
all'esaltazione mistica che coinvolgeva specialmente le donne che si liberavano
delle loro inibizioni e godevano la fisicità come dono supremo degli dei.
Ma la Sicilia mi attendeva.
Mi misero in una grande cassa di
legno e mi imbarcarono su una nave diretta in Sicilia.
Ero felice.
Sapevo che là tutti mi aspettavano con ansia, erano previsti grandi festeggiamenti ma il Fato decise diversamente. Nettuno scatenò un uragano così violento che la mia cassa posta sulla tolda scorreva da un punto all'altro della nave e io, dentro a essa mi andavo rompendo gambe e braccia. Poi naufragammo, tutti i marinai perirono e io precipitai nell'abisso, nella totale oscurità. La cassa durante il naufragio si ruppe e io rimasi in balia dell’acqua e dei pesci in un mare senza fine.
Ero felice.
Sapevo che là tutti mi aspettavano con ansia, erano previsti grandi festeggiamenti ma il Fato decise diversamente. Nettuno scatenò un uragano così violento che la mia cassa posta sulla tolda scorreva da un punto all'altro della nave e io, dentro a essa mi andavo rompendo gambe e braccia. Poi naufragammo, tutti i marinai perirono e io precipitai nell'abisso, nella totale oscurità. La cassa durante il naufragio si ruppe e io rimasi in balia dell’acqua e dei pesci in un mare senza fine.
Io che ero il dio dei canti,
delle feste e della gioia, fui costretto a stare per millenni nel peggiore dei
luoghi, e attendere inerte e immobile: capii cosa sono gli inferi.
Ma Giove un giorno si svegliò.
Capitan Ciccio uscì dal porto di
Marsala un mattino del 1998 con il suo battello
e con le sue reti a strascico percorse, come ogni giorno, il canale di Sicilia. Nell'immensità abissale del canale le reti incontrarono la mia testa e la
ingabbiarono.
Solo il volere di un dio poteva
compiere un simile miracolo.
Era stato come cogliere un ago in
un pagliaio; alla cieca nella vastità dei fondali vastissimi e ignoti, la rete incontrò la mia testa e la
agganciò.
Due miracoli in un solo
momento.
Mi sentivo tirare, sentivo che
venivo su, per ore salii e lentamente vidi apparire qualche barlume di luce,
poi vidi il Sole e la mia gioia fu irrefrenabile. Da quel momento non ho avuto
più pace, né io la cercavo. Il Sindaco di Roma partì immediatamente per venirmi
a vedere, poi si mosse il Governo e la cultura, poi mi vollero a Tokio e al
Louvre. Mi hanno fatto fare voli
meravigliosi in aerei che ai miei tempi
non esistevano.
Gli abitanti del pianeta mi ammirano,
forse hanno capito più degli Ateniesi
chi sono e cosa rappresento.
A Marsala mi declassarono a livello di “satiro”, forse pensavano alla satira
che loro tanto amano, e malgrado ciò mi
diedero i più alti riconoscimenti.
Un intero convento è destinato alla mia esposizione e qui accolgo i visitatori che vengono da tutto il mondo. Sono felice di essere in questa città famosa per il suo vino che da lei ha preso nome e che qui so non mi mancherà mai.
Un intero convento è destinato alla mia esposizione e qui accolgo i visitatori che vengono da tutto il mondo. Sono felice di essere in questa città famosa per il suo vino che da lei ha preso nome e che qui so non mi mancherà mai.
Io ho sconfitto la morte, ho
eliminato le Parche perché io sono la
vita, e come la vite che rinasce ogni anno per darci i suoi inebrianti frutti, così la mia gioia non ha fine.
VIVA VIVA LA VITA
VIVA VIVA LA VITE”.
leggere le tue parole e sentirci più vicino,
RispondiEliminanon smettere mai!
Questa è la potenza delle parole!
EliminaFantastico sei passato dal "Trionfo della morte", al "Trionfo sulla morte"!.
RispondiEliminaLeggerti è sempre un Piacere, keep going...
Un inno alla vita fatto di bronzo...
EliminaComplimenti Giorgio! Profondo e commuovente!
RispondiElimina