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Io Auriga di Mozia


“Ve la racconto io la mia storia, mettete da parte le vostre guide” disse l'auriga scendendo dal basamento.
Aveva recuperato piedi e mani  e, come per magia, si era ritrovato integro e pieno di forze. Nei musei accadono cose strane, ma in quelli archeologici, cose incredibili.
La voce era autorevole, di chi si sente padrone della situazione.
I turisti che affollavano la sala del museo di Mozia quel giorno erano particolarmente numerosi dato che la statua era stata per molti mesi in Giappone, a Tokio, ove l' avevano voluta esporre in un museo, come avevano fatto tanti altri Musei del mondo.
“Vi racconto” proseguì la statua con voce ferma, “che io vengo dalla lontana Efeso sull'Egeo ove, in una cava del bel marmo i cavatori mi strapparono alla montagna. Ero un masso gigantesco di oltre due tonnellate, ero stato richiesto dagli agrigentini in Sicilia e lì dovevo andare.
Gli agrigentini volevano arredare il loro tempio più grande con una statua che ricordasse la vittoria di un auriga nelle corse di bighe. Ma vollero che fosse di un marmo raro e bellissimo che non c'era in Sicilia, non badarono a spese.
Il trasporto fu laborioso, durò mesi, mi trascinarono su rulli di legno e mi imbarcarono al porto di Efeso su una nave robusta, mi legarono alla tolda e iniziammo il viaggio verso la Sicilia. Il viaggio non fu facile, un fortunale ci colse al largo di Siracusa e le funi che mi tenevano si ruppero e col beccheggio mi spostavo paurosamente sulla tolda… rischiai più volte di finire in mare ma gli dei mi protessero.
Ci rifugiammo nel porto di Siracusa e i marinai poterono rifornirsi di acqua e viveri. Poi proseguimmo per il porto di Agrigento ove una gran folla ci attendeva.
Mi attendeva con ansia anche lo scultore, colui che mi avrebbe tirato fuori dal marmo. Mi portarono nel suo laboratorio, lui mi osservò da tutte le parti, guardò ogni venatura, ogni imperfezione che apparisse all'esterno e rimase soddisfatto: non esisteva un marmo che si potesse confrontare con me che venivo dalla Lidia.
Il popolo veniva a visitare il laboratorio, tutti erano ansiosi di saper cose c'era dentro quel masso e cosa ne sarebbe venuto fuori.
Poi lo scultore si mise al lavoro per prima cosa preparò un sostegno in legno attorno al quale mi modellò con la morbida creta. Sentii che a poco a poco andavo nascendo, prima mi sbozzò nelle grandi linee, poi scese nei particolari e mi accorsi che era di una perfezione e bravura che poteva solo confrontarsi  con quella del grande maestro Fidia o del suo allievo Prassitele.
Modellò il kitone come fosse di sottile garza che mi copriva con tale maestria che sembrava vero. Il kitone cadeva sino ai piedi ma non nascondeva il corpo anzi lo evidenziava e ne rilevava la sua imponenza. In testa modellò i capelli a riccioli che sembravano una corona di alloro, ero un vincitore e il ramo in bronzo di alloro che portavo con la destra doveva indicarlo.
Poi modellò la fascia pettorale di duro cuoio  che serviva ad agganciare le redini dei cavalli. La mano sinistra la modellò appoggiata al fianco sinistro: ero un vincitore ed ero a riposo.
Quando il modello fu finito, gran folla si accalcò alla bottega e tutti volevano vedermi e ammirarmi. Mai nulla di simile si era visto, gli scultori hanno sempre preferito rappresentare gli atleti nudi, il loro corpo doveva rappresentare la tensione della gara, doveva essere simbolo di movimento e azione, il vestito sembrava un appannaggio inutile, anzi un ostacolo alla visione diretta. Lo scultore volle sfidare se stesso e competere con le proprie capacità. Fu un'idea geniale quella di rappresentare l’atleta non durante la competizione, ma al momento della vittoria, che gli consentì di fare quello che pochi scultori avevano fatto, ricordare e immortalare la vittoria di un atleta nel momento del successo e del trionfo.
Questo messaggio lo intuirono gli agrigentini e ne furono lieti e orgogliosi, ma lo scultore sapeva che lui operava per le generazioni future, doveva lasciare ai secoli, e ai millenni futuri un messaggio più duraturo del bronzo e tale da sfidare Kronos.
Poi lo scultore si mise all'opera più delicata: passare dal modello in creta al marmo trasferendo ogni piega e ogni fibra nella dura pietra. Il marmo doveva vivere sotto gli scalpelli, doveva vibrare come carne viva. Ogni colpo di scalpello doveva essere calcolato e misurato, e mai e poi mai si doveva fallire o errare: con il marmo non c'è possibilità di correzione. Lo scultore chiamò dei collaboratori, lavoravano a squadra, bisognava togliere tutto il superfluo.
Furono mesi intensi, lui spesso veniva a lavorare anche la notte al lume di una lucerna, voleva vedere quello che la luce del giorno nascondeva, voleva spiarmi anche di notte.
Quando finì Il suo lavoro i curiosi divennero pressanti e si impose la necessità  di trasportarmi nel grande tempio di Giove da poco terminato. Lì la folla mi ammirò e per centinaia d'anni restai esposto fino a quando i cartaginesi, occupata Agrigento, mi trasportarono a Mozia, che ritenevano più sicura.
Fu un viaggio trionfale, mi trasportarono su un carro tirato da cavalli, sembrava camminare sulle acque perchè per sette chilometri percorsi la via semisommersa che collegava l'isola alla terra ferma. Da lontano vidi le grandiose mura che circondavano l'isola e la rendevano sicura come una fortezza.
Entrati trionfalmente dalla porta Nord e tutti gli abitanti dell'isola mi attendevano come un dio. Poi mi portarono in un grande edificio a tre navate che voi chiamate il “Cappiddazzu” e lì fui mostrato al popolo di Mozia. L'Isola era splendida e i profumi delle ginestre, del rosmarino, dei tanti fiori arrivavano fino a me.
L'isola traversava il suo periodo di massima floridezza. Su quello scoglio i sui abitanti avevano creato una splendida città al centro del Mediterraneo fondata su due assi viari, il cardo e il decumano, sui quali si affacciavano ricche case. Loro vi avevano portato tutto, anche le pietre per erigere le gigantesche mura, con  navi che formavano la flotta più grande di quei tempi. La loro vera ricchezza era l'ingegno e di quello ne avevano tanto e lo dimostravano.
Il commercio era la loro vita e loro, in mezzo al mare, lo dominavano
Furono anni splendidi per l'isola: i moziesi avevano una flotta imponente e il porto era sempre pieno di navi che commerciavano con l'Africa, con i romani e con i greci.
Purtroppo la ricchezza dell'isola attirò le mira di un tiranno greco che aveva conquistata gran parte della Sicilia e mal tollerava la  crescente potenza dei moziesi.
Un giorno, era il 397 avanti Cristo, vidi arrivare da levante una potente flotta inviata da Dioniso con l'ordine di conquistare l'isola. Le alte mura non furono sufficienti a proteggere l'isola. Le macchine da guerra le superarono e non ci fu scampo. L'esercito di Dioniso penetrò e fu la fine dell'isola. Molti cittadini vennero trucidati, molti fatti schiavi e condotti come prede di guerra a Siracusa.
Fu la fine di un'epoca e di un mondo.
Per evitare che  l'isola potesse riprendersi furono abbattute non solo le case ma anche le mura, non  doveva restare pietra su pietra, questa era la dura legge dei tempi. Io mi trovai in piedi nel tempio e, muto, assistei a quello scempio, poi venne la mia ora, abbatterono il tempio, neanche io dovevo restare in piedi, mi legarono con funi  e mi gettarono nella polvere rompendomi braccia e piedi: divenni un rudere  ritornai pietra fra le pietre.
Con gli anni la terra mi coprì e io non vidi più né l'isola né il Sole. Nessuno si interessò di quello che era diventato uno scoglio invivibile. Sbarcarono i romani, gli arabi, i normanni, gli spagnoli ma non c'era nulla da conquistare e depredare e tutti andarono via, così nel silenzio trascorsero oltre due millenni.
Un giorno sentii dei passi, sentii che sulla mia testa camminavano altri uomini, non più cercatori di ricchezze ma di memorie, capii che il mondo era cambiato.
Un operaio mentre scavava mi colpì col piccone e capì che non era una pietra come le altre: io ero qualcosa di diverso. Chiamò gli altri e insieme cominciarono a scavare con le mani come se avessero trovato un essere vivente. Mi rimisero in piedi e io rividi la mia isola. Rividi solo sterpaglie e antiche macerie, ma vidi anche in viso il nuovo conquistatore: l'inglese Joseph Whitaker colui che riscoprì non solo l'isola ma tutti i suoi veri tesori. Era venuto dall'Inghilterra per commerciare il Marsala, ma lui non si occupava solo di vino, da Marsala passò a Mozia e se ne innamorò al punto che volle comprarla. Il proprietario, il notaio Rosario Alagna,  fu ben felice di vendergli quello scoglio pieno di macerie e invivibile. Ma Pip, come era confidenzialmente chiamato Joseph, aveva notizie o meglio ricordi scolastici: si ricordò di Tucidite di Diodoro Siculo e iniziò gli scavi con pochi mezzi e tanto entusiasmo.
Fu premiato e anche fortunato, come Schliemann, trovò quello che non sapeva ci fosse sotto terra, trovò di tutto: i conquistatori, nella furia distruttiva avevano lasciate memorie e reperti tali che impegneranno gli archeologi per altri mille anni.
Io fui rimesso in piedi con l'aiuto di ferri, e ora vi posso dire che ritorno con piacere sul mio piedistallo.
Torno al mio posto, per farmi ammirare da tutti: io sono immortale”.

Commenti

  1. “Ve la racconto io la mia storia, mettete da parte le vostre guide”... finalmente le opere d'Arte si raccontano. Geniale, divertente ed emozioneante. Grazie Giorgio

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