“Siediti vicino a me, voglio
guardare da vicino i tuoi famosi occhi, ridenti
e fuggitivi, ma voglio vedere anche il resto che non è poco, ne devo
parlare nel mio blog, ti metterò assieme a Nefertiti, alla Venere di Milo, alla
Gioconda e alla Vergine delle rocce; starai tra le donne più belle del mondo”.
Con Silvia ci eravamo incontrati
nella sua casa a Recanati, dove lei aveva
tessuto la faticosa tela e da dove partiva quella voce che tanto aveva sconvolto il cuore del
giovane poeta.
“La prima
cosa che voglio sapere è qual è il tuo vero nome: so che Silvia è un nome di fantasia che ti diede Giacomo”.
“Sappi” disse Silvia “che con
Giacomo ci conoscemmo per caso. Io ero figlia del cocchiere di casa del Conte Leopardi,
e il mio vero nome era Teresa Fattorini,
che non aveva niente di poetico. Silvia
mi volle chiamare lui e io ne sono fiera”.
“Vorrei sapere ancora se il
tuo perpetuo canto era spontaneo o motivato. La risposta mi interessa
personalmente, come ti spiegherò”.
“Sappi” disse Silvia con aria annoiata “che io cantavo per il
mio piacere, se poi qualcuno mi ascoltava, tanto peggio per lui”.
“Silvia, dimmi la verità, sapevi che questo ‘qualcuno’ era il
figlio del Conte?”
“A me non importava nulla del Conte e dei suoi dieci figli. Io
cantavo come gli uccelli, per il mio unico piacere”.
“Capisco.” Commentai io. “Perché Giacomo perse la testa a tal
punto che dovette rievocare al Fato, per superare la sua crisi esistenziale? Perché
Giacomo, con slancio giovanile, non corse ad abbracciarti? Perché si limitò ad ascoltare il suon della tua voce?” Silvia non mi rispose e invece si fece una
grande risata.
“Devi sapere” le dissi con aria professionale “che io come Giacomo
passai le pene dell’Inferno per colpa di lda, una ragazza calabrese, che inquietò i
miei sonni giovanili.
Andrò un po’ più in là nel tempo: al secondo liceo divenni insofferente della scuola, e decisi di fare il
‘salto’: si davano assieme gli esami del penultimo ed ultimo anno di Liceo,
così si risparmiava un anno di scuola, e io
ci provai.
Avevo i giorni contati e le ore stabilite per studiare il
programma di due anni in uno: predisposi
una tabella di marcia fittissima, come un orario ferroviario. Ad ogni ora
corrispondevano tante pagine da studiare
per ogni materia. Era un programma ferreo che mi ero dato e non potevo derogare. Era
da pochi mesi che mi ero sottoposto a questo regime, quando arrivò Ida, e
furono dolori.
La palazzina in via Di Marco a Palermo, dove vivevo con i
miei genitori, era formata da tre piani;
in quello seminterrato c’era lo studio
mio e quello di mio fratello sempre vuoto perché lui era già all’università, e altri
locali di servizio. Una delle tre cameriere era Ida, una giovane calabrese alta,
dai bei capelli neri che aveva l’abitudine di lavorare cantando. Si metteva
nella stanza accanto al mio studio e solo una porta ci divideva.
Lei cantava come un usignolo per ore intere, provocandomi evidentemente. La pregavo di
fare adagio, ma, mi ricordo, era tutto inutile, e al suon della sua voce dovevo
studiare Tacito, Dante Virgilio e tante altre sudate carte. Giacomo in me ha trovato la lingua
mortale…
Capii Ulisse e perché si fece legare all’albero della sua
nave.
Con grandi sacrifici, arrivai
alle lacrime, superai gli esami, mi liberai del liceo e poi dell’Università e
diventai uno dei più giovani ingegneri italiani.
Quei sacrifici, quelle
pene, mi salvarono la vita, non partii
per la Russia dove morirono in tanti
miei compagni; vinsi una borsa di studio
e vissi da studente a Roma.
Mentre scrivo oggi queste parole, dal giardino mi arrivano il
canto melodioso e i gorgheggi di alcuni usignoli che sembrano innalzare un inno
al Creato. Mi fermo. E se fossero Silvia e Ida che hanno voglia di continuare i
loro canti?
Le pene causate da te Silvia e da Ida, erano dovute al nostro comportamento contro l’istinto, seguivamo la ragione, che ci salvò
da un futuro peggiore.
Chiudo con un verso del tuo Giacomo, quando non era
un accanito pessimista come nella poesia a te dedicata:
M’è dolce naufragar in questo mar”.
Commenti
Posta un commento