Mio padre, l'avvocato Ettore Fernandez dopo la laurea che ottenne nel 1909, entrò nel banco di Roma e presto diventò direttore dell'agenzia di Trapani.
Faceva su e giù da Palermo, ma presto si stancò e un giorno diede le dimissioni: era molto amante della sua libertà e preferì dedicarsi alla professione libera.
Si trovò con una famiglia a carico e uno studio che non aveva neanche un cliente.
Si trovò con una famiglia a carico e uno studio che non aveva neanche un cliente.
Mi raccontò che all'inizio, pur non avendo alcun cliente, andava al Tribunale di Palermo ogni mattina, solo per farsi vedere in attività. In breve riuscì ad avere una vasta clientela che gli consentì di acquisire una posizione economica importante. Era molto abile, con una mente che si notava e, grazie al "passa parola", in breve acquisì numerosi clienti di alto livello, tra cui il Principe di Lampedusa e alcuni Marchesi e Baroni siciliani.
Nel 1930 decise di fare costruire una casa per la famiglia che comprendesse anche un appartamento per sua madre che era rimasta da alcuni anni vedova. Affidò all'ingegnere Pietro Scibilia l'incarico di progettazione di una villa nel fondo Amato, che allora era ai margini della città. Scibilia era un valido ingegnere impegnato nel liberty e il progetto risultò rispecchiare quel momento.
Nel 1930 decise di fare costruire una casa per la famiglia che comprendesse anche un appartamento per sua madre che era rimasta da alcuni anni vedova. Affidò all'ingegnere Pietro Scibilia l'incarico di progettazione di una villa nel fondo Amato, che allora era ai margini della città. Scibilia era un valido ingegnere impegnato nel liberty e il progetto risultò rispecchiare quel momento.
Io da bambino, avevo 10 anni, seguii il cantiere e fu la prima volta che venivo a contatto con lavori edili. Quando la villa fu ultimata si sentiva l'influenza di mia madre che in un certo senso aveva voluto ripetere la situazione della sua casa di Genova, a due piani con una scala interna e giardino intorno. La scala interna la volle in legno con colonnine tornite e corrimano inciso, e per realizzarla fu necessario attrezzare un laboratorio di ebanisteria nell'ambiente che poi diventò l'ingresso attorno al quale si sviluppò tutta la casa. La scala, su cui lavorò un maestro ebanista di nome Fifiddo, ebbe un effetto finale molto elegante e scenografico.
Cominciammo ad abitare la casa nel 1932 e poi con il tempo, oltre ad abitazione familiare, diventò sede dei quattro studi professionali di noi figli, pieni di attività molteplici. Con il tempo la situazione si trasformò: la morte della nonna lasciò vuoto il suo appartamento, poi Sergio e Maria Pia si trasferirono a casa loro, Laura sposatasi con Nanni si era trasferita a Brescia, Carlo si era sposato con Nina e studiava fuori, poi la morte di mia madre ci lasciò soli in quell'immensa casa e mio padre ed io ci trovammo spaesati.
In quelle circostanze, anche se a malincuore, pensai di trasformare la casa unifamiliare in un palazzo con molti appartamenti e progettai un edificio di sette piani sulle nuove via di Marco e via Arimondi, che in quegli anni si erano costituite attorno alla nostra villa.
Mio padre trovo un suo cliente, l'avvocato Curcio interessato all'acquisto di appartamenti nel futuro palazzo e fu così che ci orientammo per la demolizione. La permuta fu' molto conveniente perché l'impresa offrì in permuta cinque appartamenti.
Mio padre trovo un suo cliente, l'avvocato Curcio interessato all'acquisto di appartamenti nel futuro palazzo e fu così che ci orientammo per la demolizione. La permuta fu' molto conveniente perché l'impresa offrì in permuta cinque appartamenti.
Provvidi quindi, con molto dispiacere, a far demolire la casa di famiglia, che era diventata obsoleta per il trascorrere del tempo, ma salvai la scala che, in seguito, feci rimontare nel palazzo nell'androne dell'ingresso, arricchendolo notevolmente e conservando memoria del preesistente edificio.
La forma del terreno mi obbligò a progettare la scala dell'edificio con una parete esterna sulla via Arimondi. Questa parete che doveva avere una serie di "fori" per illuminare la scala, pensai di trattarla come una scultura che divenne così la più alta scultura della città.
Questa scultura parte da un basamento in calcestruzzo sulla via Arimondi e prosegue per 25 metri fino al piano attico. Le finestre, necessarie, le progettai come "fori" sulla superficie evidenziati da cornici in calcestruzzo a "faccia vista", creando un gioco di forme quasi "cubista", di pieni e vuoti, ombre e luci che arricchiscono di movimento e caratterizzano il prospetto, rendendolo unico.
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