Alle otto di mattina l'avvocato Carlo Pace, mio amico, mi venne a prendere con la sua macchina e andammo sulla litoranea di Monte Pellegrino verso mare.
Eravamo attrezzati con una sola corda di venti metri che ci doveva servire per un'ascensione di uno spigolo della montagna che si protende verso il mare dell'Addaura. Il mio amico aveva espresso il desiderio di fare una scalata con me. Quell'ascensione l'avevo già fatta con altri amici ed era stata molto divertente anche se breve, la parete era molto esposta e ripida verso il mare di Mondello.
Io ero primo in cordata, ci eravamo legati e io arrampicavo deciso e sicuro, fino a quando non arrivai a un punto dove sapevo esistesse un chiodo per mettere la corda in sicurezza. Tentai in tutti i modi di trovarlo ma non ci riuscii. Allora successe quello che non mi era mai capitato, persi l'equilibrio e precipitai da un'altezza considerevole perché eravamo quasi a metà dell'ascensione che, nel complesso, era di alcune centinai di metri.
La mia caduta fu disastrosa perché sbattei più volte sulla roccia e poi mi fermai, grazie al fatto che il mio amico, molto robusto, era stato capace di trattenermi con la corda alla quale ci eravamo legati. Mi adagiai come potei su uno sperone di roccia e non potei più muovermi. Carlo mi chiamò e avendo capito che io non potevo spostarmi da là, chiamò aiuto e soccorso urlando ai rari passanti automobilisti che vedevamo da lontano sulla circonvallazione. A quel tempo non c'erano i cellulari! Dopo qualche ora i passanti chiamarono i pompieri che arrivarono con scale e attrezzature ma non riuscirono a raggiungermi, perché il punto era molto pericoloso anche per loro. Nel frattempo si era adunata una folla che assisteva alla scena e un giovane di nome Arcoleo, operaio del cantiere navale si offrì per venirmi a dare aiuto. Era pratico della zona perché cacciatore e riuscì a prendermi, mi caricò sulle sue spalle e riuscì a recuperarmi e a far scendere anche Carlo Pace.
Quando arrivammo alla base i pompieri chiamarono un'ambulanza che mi portò a un centro di pronto soccorso vicino alla chiesa di via Villabianca. La stessa sera mi trasferirono in casa dove mi visitò un dottore che dispose radiografie da eseguire l'indomani. Entrai in casa in barella e mamma mi organizzò un letto a piano terra perché non avrei potuto salire le scale per arrivare al primo piano dove si trovava la mia camera da letto. L'indomani mi visitò il dottore e iniziai una lunga convalescenza con ingessatura della gamba sinistra.
La mia fortuna era stata di non avere sbattuto la testa che ancora, pare, funzioni. Per alcuni mesi dovetti fare riabilitazione dell'arto e fu faticoso. Questo avvenimento cambiò la mia vita perché la degenza mi allontanò dalla Pontificia Commissione, consentendomi di avviare la mia attività da libero professionista in un mondo che si offriva pieno di lavori e di incarichi professionali di grande prestigio.
Quella, però, fu anche l'ultima delle mie ascensioni.
Eravamo attrezzati con una sola corda di venti metri che ci doveva servire per un'ascensione di uno spigolo della montagna che si protende verso il mare dell'Addaura. Il mio amico aveva espresso il desiderio di fare una scalata con me. Quell'ascensione l'avevo già fatta con altri amici ed era stata molto divertente anche se breve, la parete era molto esposta e ripida verso il mare di Mondello.
Io ero primo in cordata, ci eravamo legati e io arrampicavo deciso e sicuro, fino a quando non arrivai a un punto dove sapevo esistesse un chiodo per mettere la corda in sicurezza. Tentai in tutti i modi di trovarlo ma non ci riuscii. Allora successe quello che non mi era mai capitato, persi l'equilibrio e precipitai da un'altezza considerevole perché eravamo quasi a metà dell'ascensione che, nel complesso, era di alcune centinai di metri.
La mia caduta fu disastrosa perché sbattei più volte sulla roccia e poi mi fermai, grazie al fatto che il mio amico, molto robusto, era stato capace di trattenermi con la corda alla quale ci eravamo legati. Mi adagiai come potei su uno sperone di roccia e non potei più muovermi. Carlo mi chiamò e avendo capito che io non potevo spostarmi da là, chiamò aiuto e soccorso urlando ai rari passanti automobilisti che vedevamo da lontano sulla circonvallazione. A quel tempo non c'erano i cellulari! Dopo qualche ora i passanti chiamarono i pompieri che arrivarono con scale e attrezzature ma non riuscirono a raggiungermi, perché il punto era molto pericoloso anche per loro. Nel frattempo si era adunata una folla che assisteva alla scena e un giovane di nome Arcoleo, operaio del cantiere navale si offrì per venirmi a dare aiuto. Era pratico della zona perché cacciatore e riuscì a prendermi, mi caricò sulle sue spalle e riuscì a recuperarmi e a far scendere anche Carlo Pace.
Quando arrivammo alla base i pompieri chiamarono un'ambulanza che mi portò a un centro di pronto soccorso vicino alla chiesa di via Villabianca. La stessa sera mi trasferirono in casa dove mi visitò un dottore che dispose radiografie da eseguire l'indomani. Entrai in casa in barella e mamma mi organizzò un letto a piano terra perché non avrei potuto salire le scale per arrivare al primo piano dove si trovava la mia camera da letto. L'indomani mi visitò il dottore e iniziai una lunga convalescenza con ingessatura della gamba sinistra.
La mia fortuna era stata di non avere sbattuto la testa che ancora, pare, funzioni. Per alcuni mesi dovetti fare riabilitazione dell'arto e fu faticoso. Questo avvenimento cambiò la mia vita perché la degenza mi allontanò dalla Pontificia Commissione, consentendomi di avviare la mia attività da libero professionista in un mondo che si offriva pieno di lavori e di incarichi professionali di grande prestigio.
Quella, però, fu anche l'ultima delle mie ascensioni.
Commenti
Posta un commento