Secondo la classificazione di Sciascia io per la mafia ero considerato un "ominicchio" perché mi facevo i fatti miei senza immischiarmi dei fatti degli altri.
La mia attività professionale cominciò nel "regno della mafia" quando, dopo l'uccisione del bandito Giuliano di Montelepre e quella del medico Navarra di Corleone, iniziò la scalata dei nuovi capi.
Quando la Pontificia Commissione mi diede l'incarico di progettare le Case del fanciullo in tutta la provincia, sapevo che avrei lavorato nel territorio della mafia, ma non ebbi timore perché mi sentivo come "protetto", come se qualcuno avesse ordinato alla mafia di non toccarmi. Viaggiai per anni solo in tutte le strade e a tutte le ore con enorme sicurezza e tranquillità.
La mia attività professionale cominciò nel "regno della mafia" quando, dopo l'uccisione del bandito Giuliano di Montelepre e quella del medico Navarra di Corleone, iniziò la scalata dei nuovi capi.
Quando la Pontificia Commissione mi diede l'incarico di progettare le Case del fanciullo in tutta la provincia, sapevo che avrei lavorato nel territorio della mafia, ma non ebbi timore perché mi sentivo come "protetto", come se qualcuno avesse ordinato alla mafia di non toccarmi. Viaggiai per anni solo in tutte le strade e a tutte le ore con enorme sicurezza e tranquillità.
Doveva essersi sparsa la voce che io lavoravo per assistere i bambini, tra cui certamente molti figli di mafiosi, e i miei guadagni erano piuttosto esigui, come se fossi stato un gesuita "senza tonaca". Nessuno mai mi chiese quale era il mio compenso.
Il Prefetto Vicari e Padre Gliozzo per anni mi mobilitarono e io lavorai per loro. Non manovravo capitali ma solo disponevo lavori utili alla realizzazione delle Case del fanciullo e questo mi gratificava enormemente perché ero cosciente che contribuivo al miglioramento della società, poichè questa attività della Pontificia alleviava molti disagi delle famiglie.
Il mio lavoro si svolgeva e si svolse per anni nel triangolo della mafia, Corleone, S.Giuseppe Jato e Partinico, che divennero in quegli anni le capitali di un mondo sotterraneo che da allora, purtroppo, non è mai tramontato.
Quando nel 1989 appresi che Vincenzo Bongiorno, mio socio per la costruzione del villaggio di Punta Pispisa, vicino Castellammare, era stato brutalmente ucciso per non avere voluto sottostare ai ricatti che gli erano stati avanzati per la gestione di un suo oleificio, toccai con mano la crudeltà e la potenza di uomini privi di coscienza e di dignità.
Improvvisamente mi resi conto che io avevo vissuto in quegli anni sul bordo dell'orizzonte degli eventi di un buco nero, e capii che ero stato ai limiti, mentre Bongiorno era precipitato nel buco nero: a lui era successo quello che aveva subito il fratello del Presidente Mattarella, anche lui di Castellammare, poichè la mafia aveva travolto entrambi nel suo vortice che conduce al nulla.
Nella mia vita ho incontrato tanti siciliani impregnati di mentalità mafiosa che forse non si accorgono di essere prevaricatori per natura e non hanno ancora conquistato un livello di civiltà quale noi speriamo si raggiunga con gli anni nella nostra terra.
Commenti
Posta un commento