Casualmente venni a sapere che in Ungheria si organizzavano viaggi a cavallo per promuovere il turismo equestre. Da alcuni anni, dopo la guerra, in Ungheria si era instaurata la cortina di ferro per volere di Stalin e il Paese era passato nel più ferreo regime sovietico. Malgrado il regime, gli ungheresi sfruttavano in qualche modo l'immenso patrimonio equestre costituito da cavalli, stalle e scuderie di alto livello, disseminate nel loro territorio costituito di immense praterie chiamate "la Pustzta". A quel tempo il governo promuoveva un turismo equestre che, malgrado tutto, fece conoscere il regime sovietico e le sue tristezze.
Aderii, incuriosito, ad uno di questi viaggi organizzati un ente preposto per accogliere i turisti. Il punto di riunione del gruppo era Vienna perché solo da lì si poteva entrare in Ungheria. Mi ritrovai con un gruppo di 14 cavalieri, di cui due erano belle ragazze olandesi, Helen ed Evelin, e a Vienna cominciammo a conoscere cosa era il regime sovietico: passammo diverse ore per avere il visto di ingresso e dopo estenuanti e scrupolosi controlli riuscimmo a partire per Budapest.
Durante il viaggio conobbi il gruppo di cavalieri miei compagni di viaggio, che era molto vario, costituito da professionisti sulla quarantina come me, di cui solo sei italiani, tutti appassionati di cavalli e desiderosi di conoscere l'Ungheria, le sue pianure infinite e la sua Pustzta.
L'accoglienza in Ungheria fu molto cordiale e professionale: venimmo a conoscenza delle ottime scuderie, della perfetta cura dei cavalli che venivano controllati ogni giorno per vedere se la sella aveva provocato piaghe e, in questo caso, il cavallo veniva immediatamente sostituito da uno sano. Passavamo ogni giorno circa otto ore a cavallo in quelle immense pianure sconfinate che sembrano predisposte per i cavalli, i quali non avevano bisogno di ferri agli zoccoli perché il terreno era sempre morbido, accogliente e senza pietre! Un pulmino ci precedeva con i nostri bagagli, così in ogni tappa trovavamo tutte le nostre cose già in camera.
Il viaggio era organizzato in modo che ogni giorno incontrassimo qualcosa di interessante e che lo rendeva vario e divertente.
Un giorno visitammo il castello di Siklos, poi un museo, poi alcuni paesi e sempre trovammo un'accoglienza affettuosa. Un giorno ci venne a trovare un coro di ragazzi che ci fece conoscere i canti ungheresi, poi un altro giorno facemmo un pic-nic in una foresta bellissima, un giorno ci fecero fare un giro con eleganti carrozze d'epoca: tutto questo era gratificato dal "bicchiere della staffa" che in ogni occasione ci veniva offerto.
La comitiva era affiatata e io mi trovai molto bene perché eravamo tutti desiderosi di cavalcare in quelle splendide pianure. Le due signorine olandesi, corteggiatissime, erano accompagnate da una governante che cavalcava anche lei e loro contribuirono molto a rendere le lunghe galoppate divertenti.
Il ritmo che tenevamo ogni giorno era: alle nove in sella, poi passo, trotto e galoppo alternati e dosati in modo giusto perché i cavalli non si stancassero. Tutto era in funzione della loro condizione fisica e così capimmo veramente che in quei luoghi un'antichissima cultura aveva affiatato l'uomo al cavallo e gli ungheresi ne erano depositari.
Dopo qualche giorno dal mio rientro a Palermo ricevetti un racconto dattiloscritto inviatomi da uno dei partecipanti che aveva tenuto un diario giornaliero, intervallato da divertenti schizzi che riguardavano i fatti salienti del viaggio.
Da questo viaggio io ricavai un'esperienza umana molto forte e una conoscenza del mondo equestre che ci aveva preceduti per millenni.
Feci anche un'esperienza personale del mondo sovietico e, anche se loro erano molto reticenti, capii che la cortina di ferro era effettivamente fatta da un regime "ferreo" che non lasciava spazio alla fantasia umana.
In quei luoghi si respirava un'aria diversa, l'aria di un mondo oppresso da una dittatura stalinista che non aveva vie di uscita.
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